Picco glicemico e dieta
Una dieta a basso indice glicemico aiuta a perdere peso (almeno in linea teorica). Si tratta di un regime alimentare che non prende in considerazione la quantità di calorie consumate ma solo l'indice glicemico degli alimenti (parametro noto anche con la sigla IG o GI dall'inglese Glycemic index). Fino a qualche anno fa solo le persone affette da diabete stavano attente all'indice glicemico, un parametro che indica con quanta velocità cresce la glicemia dopo aver consumato una certa porzione di un determinato alimento. Per i diabetici è molto importante tenere sotto controllo l'IG perché devono evitare aumenti repentini della glicemia. Ultimamente, a prescindere dal diabete, si sta diffondendo una moda alimentare, che in alcuni casi rasenta l'ortoressia, nota come metodo Montignac. Un fenomeno simile era già stato osservato in precedenza con la dieta a zone (probabilmente il primo modello alimentare basato sull'indice glicemico degli alimenti).
Nel corso di questo articolo spiegheremo perché una dieta a basso indice glicemico non può funzionare, prima vediamo però come una maggiore consapevolezza sulla fisiologia del picco glicemico ci può aiutare ad accumulare meno grassi. Un brusco incremento della glicemia dopo un pasto determina una risposta proporzionale dell'organismo in termini di produzione di insulina. Se si raggiunge un'elevata concentrazione di glucosio nel sangue in breve tempo (pico glicemico elevato), ci sarà un rilascio di insulina che determina un repentino abbassamento dei livelli di glucosio a valori che potrebbero essere addirittura inferiori a quelli di partenza. Questo processo può favorire due fenomeni che possono influire sul peso:
Un minor utilizzo del glucosio da parte dell'organismo con un conseguente accumulo sotto forma di grassi nel tessuto adiposo.
Un abbassamento repentino della glicemia che genera dei segnali di livelli bassi di "carburante" per l'organismo, di conseguenza si determina una nuova sensazione di appetito e si è portati ad assumere ulteriori quantità di cibo.
Si generano quindi dei messaggi fuorvianti che contribuiscono ad aumentare la massa grassa. Questo spiega come mai, anche dopo aver mangiato determinati alimenti, persiste la sensazione di fame. Un consiglio che danno alcuni pediatri, per l'alimentazione dei bambini, valido comunque anche per gli adulti, è quello di non dare alimenti ricchi di zuccheri, come merendine e succhi di frutta, se i piccoli sono in casa davanti al televisore. Tali alimenti possono invece essere dati prima o durante l'esecuzione di un'attività fisica, in questo caso ci sono infatti meno conseguenze sul peso corporeo, poiché le riserve energetiche vengono utilizzate immediatamente e non accumulate.
Qualche tempo fa abbiamo scritto un articolo dove si suggeriva di non dare dolci e caramelle prima dei 2 anni, un consiglio molto importante per la dieta del bambino che contribuisce a ridurre il rischio di obesità e sovrappeso da adulti. Finché sono piccoli questo compito può essere abbastanza semplice, sopratutto se i genitori danno il buon esempio e loro per primi non mangiano determinati alimenti. Quando crescono, la privazione dei dolci potrebbe non essere sempre facile ma, la scelta del momento giusto, potrebbe ridurre gli effetti sul peso.
Il momento "migliore" per mangiare una caramella, o un dolce, è a fine pasto, questo perché gli zuccheri semplici vengono assimilati insieme ai carboidrati e, sopratutto, alle fibre; un accorgimento che permette di limitare il picco glicemico. Se si mangia una caramella fuori pasto, può essere utile associarla a dei crackers (preferibilmente integrali), grazie ai carboidrati complessi si limita infatti il glucosio nel sangue.
Quando si vuole dimagrire bisogna quindi stare attenti ad evitare i picchi glicemici troppo elevati, non facendo però l'errore di demonizzare gli alimenti con un alto indice glicemico, questi non sono infatti dannosi a prescindere, ma bisogna valutare una serie di fattori. Una dieta a basso indice glicemico basa tutto sull'IG. In pratica più questo parametro e vicino a 100, più l'organismo tende a trasformarlo in grasso, al contrario, più si avvicina alo 0, più l'organismo lo brucia, favorendo, di conseguenza, la perdita di peso. Il glucosio, ad esempio, ha un IG pari a 100.
Alla luce di queste informazioni non bisogna però arrivare a conclusioni affrettate, basti pensare che gli zuccheri non vanno eliminati neanche dalla dieta di chi è affetto da diabete di tipo 1 e 2. Un regime alimentare equilibrato prevede infatti tra il 10 e il 15 per cento di proteine, tra il 25 e il 30 per cento di grassi e addirittura tra il 55 e il 60 per cento di zuccheri (carboidrati). Se si eliminassero completamente gli zuccheri si favorirebbe un aumento delle quote proteiche e lipidiche con conseguenti possibili alterazioni a livello renale.
Ovviamente bisogna fare una distinzione tra zuccheri complessi e semplici, i primi forniscono energia più lentamente nel tempo, gli altri danno una disponibilità immediata. Quando si parla di zuccheri importanti per la dieta ci si riferisce sopratutto a quelli complessi, contenuti ad esempio nel pane, nella pasta, nel riso, nei legumi, ecc.. In alcuni casi, per esempio dopo un'attività fisica a intensità medio alta, può essere utile anche assumere degli zuccheri semplici per ripristinare le scorte di glicogeno (la fonte di deposito e di riserva del glucosio nell'organismo). Nella dieta è bene utilizzare il buon senso e non bisogna escludere a priori determinati alimenti, il consiglio migliore è quello di mangiare tutto ma con moderazione.
Il dilagare delle mode dietetiche ha portato a semplificare eccessivamente specifici parametri come l'IG e, di conseguenza, alcuni alimenti sono stati ingiustamente inseriti nella lista nera di quelli che non devono essere consumati per non ingrassare. Quando in una tabella si esamina l'indice glicemico dei cibi, non bisogna dimenticarsi di valutarne anche il quantitativo. Come per le calorie, anche in questo caso è la quantità a fare la differenza. L'attivazione del meccanismo dell'insulina è infatti collegato alla quantità di glucidi che si assumono, un processo che viene valutato mediante un parametro noto come carico glicemico (CG) o GL dall'inglese Glycemic load.
Per semplificare possiamo dire che l'indice glicemico misura la qualità dei carboidrati mentre il carico glicemico misura la loro quantità. Mediante quest'ultimo parametro si può quindi valutare l'effetto sulla glicemia di un alimento in base alla quantità effettivamente consumata. Cerchiamo di capire meglio, attraverso i numeri, prendendo in considerazione il fruttosio e il comune zucchero da tavola (saccarosio). Il fruttosio ha un indice glicemico di circa 22 mentre il saccarosio è tre volte tanto (IG = 66), 30 grammi del primo provocano però un rilascio insulinico superiore rispetto a 8 grammi di zucchero. Tale valore emerge dalla seguente formula:
Formula per calcolare il carico glicemico |
CG = (IG alimento x Grammi di carboidrati a porzione) / 100 |
Alimenti che presentano un indice glicemico basso potrebbero trarre in errore perché, in base alla dimensione della porzione, presentano un carico glicemico maggiore. Per lo stesso motivo, alimenti diversi possono avere un CG simile nonostante IG differenti anche di molto. Le cose si complicano ulteriormente quando non si considerano dei carboidrati semplici, quali ad esempio il saccarosio e il fruttosio. Una fetta di pane ai cereali ha un IG di 45 mentre una di pane bianco arriva a 70, se però assumiamo 100 grammi del primo (contenente 43 grammi di carboidrati) e 50 del secondo (che apporta 24 grammi di carboidrati) avremo un carico glicemico molto simile: 19 per il pane ai cereali [CG 19 = (IG 45 x 43) / 100] e 17 per il pane bianco [CG 17 = (IG 70 x 24) / 100].
In conclusione, l'indice glicemico è da considerare come un valore indicativo perché si riferisce esclusivamente all'alimento "puro" e non alla quantità effettivamente consumata, un parametro che si può ottenere con la formula del carico glicemico riportata sopra.
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